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Quando i nostri valori cambiano

L’anno scorso a quest’epoca, lavoravo in una ditta, avevo un ‘ipoteca, una tosaerba e tutte quelle cose che si pensa debbano avere i professionisti superata la ventina. Ma avevo anche un gran vuoto dentro. Non avrei mai saputo dire perché. Così mi sono messa alla ricerca di quel qualcosa che poteva dare senso alla mia vita. Ho passato in rassegna centinaia di proposte di volontariato, fino a quando ne ho trovato una che mi interessava davvero: NPH Honduras, un focolare per 600 bambini orfani e abbandonati.

 

Non è che sapessi molto dell’ Honduras; e neanche degli orfani. E il mio spagnolo, nella migliore delle ipotesi, era di second’ ordine. Ma qualcosa dentro mi ha convinto a fare una verifica. Così a fine novembre sono venuta a vedere. Nel momento stesso che scendevo dall’aereo, ho capito che sarebbe stata un’esperienza indimenticabile. Però non sapevo se sarei stata all’altezza.

 

Prima che me ne rendessi conto mi trovai sbalzata sul retro di un furgoncino, con la mia sacca a fianco. A quell’ora, il giorno avanti, me ne stavo comodamente al sicuro nella mia stanza, mi dissi. Il furgoncino correva attraverso una campagna mozzafiato intervallata da costruzioni molto povere. Fui sopraffatta da una serie di emozioni, pur sentendomi del tutto lucida e sicura. Come se, prima di allora avessi vissuto una vita priva di esperienze vere.

 

Quando raggiungemmo il Ranch Santa Fé, sede di NPH a 36 km da Tegucigalpa, incominciai a rendermene conto pian piano. Dozzine di piccoli e ordinati edifici in mattoni coi tetti arancioni, infilati sopra a tenere collinette alberate. Lo stridio familiare delle altalene all’aperto unito alle risate dei bambini. Grandi e vigorosi pini a guardia di questo piccolo villaggio. C’era nell’aria la gioia di un campo da gioco, pieno di visitatori presenti per una gigantesca riunione familiare. Ma subito insorse un pensiero: questi bambini non dormiranno coni loro genitori stanotte. Erano l’uno famiglia dell’altro, cosa che a loro sembrava essere normale.

 

Alcuni volontari mi portarono a Casa Suyapa, residenza dei più piccoli, dai sei anni in giù.. In pochi secondi uno sciame di bipedi mi sopraffece con baci, abbracci e milioni di domande. Da dove venivo? Come erano gli Stati Uniti? Di quante persone era composta la mia famiglia? Perché i miei capelli erano così ricci? Un assedio senza fine. Mi sentivo come deve sentirsi un politico a una conferenza stampa. Solo che nessuno pretendeva di giudicarmi o di darmi un voto.. Si trattava solo della normale curiosità dei bambini. In quel momento, tutti i dubbi e le incertezze dovute alla paura di sentirmi straniera in un contesto nuovo sparirono. Questi bambini mi avevano accettata ed amata fin dal primo momento. Non mi era mai capitato niente del genere. Capivo confusamente che questo era proprio il posto dove dovevo stare. Infine, per farla breve, sono tornata negli States, ho venduto la mia casa, lasciato il lavoro, scambiato la mia ventiquattrore con uno zaino, ed eccomi qui.

 

Molti di questi piccoli hanno vissuto nella loro breve vita più tragedie di quante io possa immaginare. Ma sono così pieni di vita e di stupore che mantengono pur sempre un cuore bambino. Non si può comunque guardarli senza una punta di sofferenza. Prendiamo Maria, per esempio: una ragazzina dolce e timida che ho conosciuto una delle prime volte che mi trovavo al Ranch. Ha solo 10 anni, ma si comporta come se ne avesse il doppio o il triplo, come una che è cresciuta troppo velocemente.

 

Quella sera, a cena, si accorse che il mio piatto non era molto pulito. “Ehi, tia, mi disse, fammi lavare il tuo piatto perché non è pulito”. Prima che potessi replicare, era già andata al lavandino e strofinava con foga il mio piatto. Me lo riportò e disse “Ecco, adesso va meglio”.

 

Ho poi saputo alcune cose sul passato di Maria, quel passato che l’ha resa così matura. Suo padre è morto di AIDS nel 1994 e l’anno scorso è morta anche sua madre. Nel frattempo la famiglia di Maria aveva perso la casa e tutti i suoi averi a causa dell’uragano Mitch. A questo si aggiunse poi un’altra informazione che fu per me come un pugno nello stomaco: anche Maria era affetta da AIDS, conclamato. Fa parte di quella dozzina di ragazzi che sono sieropositivi. E pensare che noi possiamo permetterci il lusso di curarne solo una metà. Maria non rientra in questa metà e quindi vive con una sentenza di morte pendente sul capo. E si preoccupava del mio piatto sporco!

 

Attenzione, anche questi bambini, come tutti i bambini, hanno i loro momenti negativi. Litigano, si arrabbiano. Spesso non ti ascoltano proprio; ma, se non sbaglio, queste sono caratteristiche dell’infanzia. Quello invece che continua a stupirmi è la capacità di capire, di recuperare che dimostrano nelle varie occasioni. Parte del mio lavoro qui consiste nell’insegnare e assistere i ragazzi, ma il più delle volte mi rendo conto che sono io quella che deve imparare.

 

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–Shannon Taggart

Coordinatrice dei progetti speciali a NPH Honduras

 

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